di Lucio Galante
Probabilmente non è ancora possibile individuare nelle varie e complesse espressioni artistiche del secolo che sta per chiudersi quei denominatori comuni che consentono di formulare categorie storiche generali, così indispensabili per orientarci nel lavoro critico. E, tuttavia, appare evidente che tutte le esperienze maturate in questo lungo arco di tempo sembrano essersi sviluppate come conseguenza di una consapevole libertà di scelta e dell’allargarsi progressivo dei confini dell’operare artistico, ora diventati veramente globali. Se si guarda poi in particolare a quelle che si sono poste in termini di più accentuata sperimentazione e innovazione – mi riferisco alle esperienze delle avanguardie storiche e poi via via a quelle cresciute come sviluppo delle stesse – la gamma delle soluzioni espressive si è così estesa che non poche difficoltà si pongono a chi voglia orientarsi tra di esse e prospettarne una qualche interpretazione. E quel che più complica le cose è che nella coscienza degli artisti, come i diciannove che hanno deciso di presentarsi in questa rassegna, c’è la convinzione che esistono diversità, o, come loro hanno inteso definirle con termine poco usato “dissimiglianze”. Non v’è dubbio, infatti, che confrontandoli e usando il concetto di stile, essi rivelino stili individuali diversi, una diversità che per alcuni di essi ha riguardato il loro stesso percorso, contrassegnato, cioè, da discontinuità e variabilità stilistiche se non proprio da cambiamenti radicali. Allora è ancora il concetto di stile che ci aiuta a orientarci. E’ per questo che nel presentare questa mostra, piuttosto che fare un gratuito esercizio ermeneutico, come spesso accade nella cosiddetta critica militante, m’è sembrato opportuno puntare sull’analisi delle opere, una per ogni artista, in particolare quella che compare in catalogo, seguendo l’ordine alfabetico degli artisti, preferendo correre il rischio di renderla un po’ didattica, ma in grado almeno di fornire punti di riferimento certi. (…)
Le superfici delimitate, i colori, le forme, i materiali diversi, la struttura dell’opera, sembra dirci Renato Centonze, possono continuare ad essere mezzi e strumenti efficaci di espressione artistica. Non solo, ma si può tornare a far diventare l’opera d’arte un oggetto “sacro”. L’idea dell’oggetto composto da tre scomparti chiudibili sembra proprio quella degli antichi tabernacoli destinati alla devozione privata. E pare che Centonze ne sia consapevole, perché nel titolare questa sua opera è ricorso al termine “scrigno” che rimanda nel suo significato a qualcosa di prezioso. La preziosità, però, è ora rappresentata – ci dice Centonze – da un bene inestimabile, la natura, e l’arte può essere un veicolo, soprattutto quando sa distillare da essa i motivi più suggestivi, colori e suoni, per rimetterci in contato e in sintonia con la stessa. Anzi, dice di più, ci invita a usare questo scrigno, proprio come un oggetto di devozione, dotandolo di uno strumento sonoro, col quale realizzare una sorta di rituale, che dovrebbe essere capace di farci avvertire sensazioni, percezioni e vibrazioni interiori di particolare intensità spirituale. E’ un ritorno alle radici dell’espressione artistica, una riaffermazione del suo potere magico o della sua valenza eminentemente estetica? Qualunque sia la risposta, anche questo originale esito artistico è frutto dei cambiamenti radicali della nostra epoca.
Ad analisi conclusa, forse si può avanzare qualche ulteriore considerazione. Innanzitutto si può rilevare come quasi tutte le esperienze artistiche qui presentate riaffermino inequivocabilmente la natura oggettuale dell’opera d’arte; gli artisti, poi, hanno inteso la modernità come presa di coscienza delle linee fondamentali della ricerca artistica contemporanea identificabili in quella che possiamo chiamare della figurazione, da intendere nella accezione non naturalistica o meglio non fondata sul principio di imitazione, e in quella dell’astrazione da intendere nella accezione generale di non figurativa, con i loro relativi sviluppi nelle formulazioni da un lato della contaminazione stilistica tra le due linee e dall’altro della sperimentazione con gli esiti nelle tendenze autoreferenziali e della negazione del valore oggettuale dell’opera. Emerge così con chiarezza l’apporto dei singoli, che dimostrano di essere capaci di dialogare criticamente con tutto il patrimonio storico, ognuno secondo le proprie propensioni e il proprio modo di rapportarsi con la propria opera e col mondo. La seconda considerazione, in ragione della prima, riguarda il rapporto centro-periferia. Non è più corretto considerare tale rapporto (che nasce dall’indiscutibile geografia degli insediamenti umani) come un rapporto culturalmente gerarchico. Anche per l’arte è verificabile, infatti, che a distanza di un secolo o poco meno dalla svolta segnata dai movimenti d’avanguardia, i processi allora determinatisi si sono sviluppati in una prospettiva che da policentrica è diventata globale, grazie, come è a tutti noto, ai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Questo cambiamento naturalmente non legittima sul piano del valore un giudizio indiscriminato. Il giudizio critico è anche giudizio di valore. è proprio dell’essenza delle attività umane, e in particolare dell’attività artistica, la non omologazione dei livelli qualitativi. La qualità naturalmente non è riducibile alla sola capacità innovativa. Gli esempi presenti in questa mostra rivelano che la capacità innovativa e l’originalità possono manifestarsi in forme diverse, anche in termini di semplice rielaborazione di uno o più codici espressivi. Spetta sempre all’analisi delle opere, come spero di essere riuscito a fare, verificarne i risultati.
Testo critico nel catalogo della mostra “Dissimiglianza”, Castello di Copertino, (15/12/1999 – 15/01/2000).