di Franco Ungaro
Quella sera non avevo bisogno di fare il solito esercizio: quando non conosco chi espone le opere, provo ad immaginarne le sembianze e il volto e attraverso il volto cerco di entrare nel suo mondo, ecco allora che guardo le opere e lentamente la persona che le ha create mi appare. Metto in conto anche che l’esercizio non funzioni e mi succede che volti e persone immaginate niente hanno a che fare con le opere che ho visto. Comunque l’esercizio provo a farlo sempre.
Quella sera del 24 aprile 2008 di questo esercizio non c’era per niente bisogno perché era Renato stesso ad accompagnarmi alla visione delle sue opere nel foyer dei Cantieri Koreja. Non un artista qualunque ma addirittura un amico, anche se tempo e circostanze ci avevano fatto perdere di vista.
Qualche mese prima era venuto a consegnarmi qualche suo catalogo insieme al desiderio di voler esporre ai Cantieri. Tutto si era svolto in maniera semplice, non c’era stato tempo e bisogno di mettere in campo antiche amicizie e complicità.
“I miei lavori li vedo adatti per questi spazi, hanno dimensioni grandi e sulla vostra pietra si possono guardare in un’altra maniera. Qualcuno potrebbe rimanerci anche stabilmente”. Pensavo a queste parole mentre mi accompagnava, guardavo quelle opere ma guardavao anche lui, come se volessi riappropriarmi di una conoscenza, di un volto che conoscevo ma di cui avevo dimenticato qualità e particolarità. Era come se anche in questo caso avessi bisogno di rifare il mio esercizio o come se non trovassi la soluzione giusta all’esercizio.
Ricordo che Renato rimarcava i suoi tentativi di uscire fuori dal dogma dell’opera, fuori dal quadro con le sue rigidità e convenzioni. Notavo anch’io come pezzi di opere sforavano le cornici e invadevano le pareti i colori creavano bolle e supertetazioni, le superfici si dilatavano per volumi e materiali diversi.
Lui parlava, io osservavo. E le sue parole mi sembravano la conclusione di un racconto che era iniziato tanti anni prima, quando ci siamo conosciuti e frequentati in Via Marco Basseo a Lecce, alla metà degli anni Settanta.
Allora formavamo i nostri sguardi sul mondo, alimentavamo cuore e mente di nuove curiosità e utopie. Attraversavamo e spingevamo insieme l’onda del cambiamento, cercavamo nella politica (non quella degli apparati e del potere) e nei movimenti le risposte al desiderio di liberarci da costrizioni, pesi, schiavitù, blocchi materiali e culturali. Eravamo un piccolo gruppo di persone genereso e solidali e Renato era l’unica tempra artistica in mezzo a tanti intellettuali, quasi tutti ideologizzati e inquadrati. Faceva fatica a far emergere questa sua dimensione e qualità diversa. Condividemmo disagio, dubbi, resistenze quando il nostro gruppo voleva trasformarsi in partito. Prima ancora del ‘dogma dell’opera’ ha combattutto contro il ‘dogma della politica’ che ci allenava al pensiero totalizzante.
La sua e la nostra era un’idea di poitica come campo aperto ai desideri, alle pulsioni, alle emozioni, ai sogni. Aria, respiro, passione. A differenza di tutti noi avveva mani e occhi e cuore più affinati e sensibili, il potere dell’immaginazione prevaleva sul potere della ragione. Le sue opere lo hanno testimoniato con altri segni e strumenti, ma con immutata intensità e coerenza. Coerenza di pensiero e di pratica unita a rigore e perseveranza.
Renato mi parlava del ‘dogma dell’opera’ ma non riuscivo a guardare le sue opere senza pensare a chi è era lui per me, alle lungehe appassionate discussioni di via Marco Basseo, alle putee dove ci rifugiavamo, alle fughe verso Lido Conchiglie. Penso allora a quanta vita, a quante emozioni ci restituiscono le sue opere. Penso a quanti ostacoli (pregiudizi, canoni estetici e morali) dobbiamo rimuovere per poter riconoscere l’arte che c’è nell’arte. Renato mi ha reso più facile l’esercizio.
Maggio 2011, Il Paese Nuovo, ARTE/RENATO CENTONZE pag 6/7