Un archivio on-line per ricordare Centonze e la sua arte

di Carmelo Cipriani Gli artisti non meritano la dimenticanza, alcuni più di altri. Eppure sono molti quelli che attendono nell’ombra il loro giusto riconoscimento, nella maggioranza dei casi post mortem. Nel lungo elenco degli eclissati rientra anche Renato Centonze, artista leccese tra i più interessanti dell’ultimo ventennio del secolo scoros.…

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Progetto Arte/Lecce, 18-27 maggio 1996

L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile

P. KLee

di Marina Pizzarelli

 

Alla base del lavoro di Renato Centonze, sin dagli anni Ottanta (dopo la stagione politica e una pittura figurativa vagamente espressionista), c’è un’immersione catartica nella natura e una ricerca, sempre risolta nei modi dell’astrattismo, fatta di tessiture d’iride a fare tessiture di spazi: spazi equivalenti a paesaggi (un’orizzontalità di pianura erbosa scompigliata dal vento, di filo increspato d’acqua, visti dall’alto), in cui sono portate all’estrema decantazione le superfici vibratili del pointillisme.

La scommessa di Centonze è nel riuscire a farci ascoltare il “suono interiore” della natura, senza violarla, attraverso la contemplazione  e la meditazione, come suggerisce il pensiero orientale – il Tao, lo Zen – che annulla il confine tra microcosmo e macrocosmo, dentro e fuori, lasciando che l’energia della natura fluisca e tutto pervada. Ma la vera avventura è nell’essere presi dalla pittura “dentro” la pittura, in un turbinio di filtrate sensazioni paniche che il blu (del mare), il verde (dell’erba), il giallo (della luce solare), assolutizzano e immensificano, nella suggestione della percezione di memoria della natura.

L’artista sembra sentire il pennello, il colore, la tela come parte di se stesso… Non c’è gestualità,  ma un fluire tranquillo e meditato, calligrafico, che definisce i propri percorsi in quel muoversi virgolato e fitto, a costruire arazzi di fili d’erba, di gocce d’acqua, di ali di farfalla, in una sorta di traslazione poetica del pensiero democriteo. È la trascrizione, in carte squisite di acrilici, in tele luminose di olii, di quelle capacità di sentire che i latini dicevano “animadvertere”.

In questa fase del suo itinerario, anche dove appare scopertamente più sensuale, più lirica, più libera, la pittura di Centonze non prescinde mai da una sua articolazione mentale, direi critica. E come un sottile ragionare sulla capacità “mimetica” della pittura, strumento di percezione sensibile, c’è qui una sorta di “ritiro dei sensi”, presupposto della concentrazione con cui l’artista costruisce i termini del proprio intenso lirismo, la propria capacità di riflessione, di memoria emozionale. La nostalgia per la natura tutt’uno con il destino dell’uomo, serenamente, pacatamente rievocata, produce opere in cui c’è un esemplare equilibrio tra rigore ed emozione, fuga dall’angoscia per la tangente della poesia. E nessuna emozione della natura va smarrita in questa determinazione mentale del dipingere, in questo sistema di segni fondato sulle infinite trasparenze della luce.

C’è tuttavia in questa pittura il germe del fieri, del divenire, del non approdo, del viaggio ininterrotto, il tocco veloce denuncia già la propria impermanenza, la propria non volontà di sistemarsi in una fissità visiva. Così quel colore dai toni pastello, fatto di piccoli tratti reiterati, di trame e intrecci, genera la voglia di sfuggire alla rigida bidimensionalità del quadro astratto e si frammenta o aggalla in profili aggettanti dai sottostanti color fields, si concretizza in ispessimenti materici o in emergenze oggettuali, in una poetica dell’intreccio e dell’accumulazione.

È, per l’artista, una fase di espressione e di espirazione (non certo di cieco vitalismo), di riappropriazione di energia terrena. Nasce e si anima un fuoco, fisico e interiore, si accendono i colori caldi, in un crescendo dai toni sommessi e fruscianti delle opere precedenti alle sonorità più intense e inebrianti di queste ultime – fuoco acqua aria terra – evocazione di un Eden perduto che vive nell’inconscio collettivo.  L’astrazione è oggi come  arricchita, nutrita del senso folgorante, corposo, del paesaggio del sud, si trasforma in “cosa” , non più fatto lirico e iconico, ma più sensualmente tattile, fisico, consapevolmente decorativo, sonoro anche.

L’artista pratica contaminazione tra pittura, scultura, musica. E la sua musica, prima suonata con un filo di erba, diventa sinfonia, ritmo. Che è quanto si è sempre verificato entro il tessuto ritmico continuo di questa pittura: un tessuto che cresce nell’infittirsi del segno-colore, nei toni intensi dei rossi, dei gialli, dei verdi, dei viola in tasselli lignei, che crea punti di bagliore, è frantumanto in molteplici tensioni dinamiche, eppure resta compatto nell’andamento del suo ritmo musicale.

Oggi esiste nell’opera di Centonze una più libera volontà di comunicazione dell’esperienza interiore, un obiettivo di partecipazione, nella tela, nella trama di rapporti cromatici e psichici, che acquistano anche un’apertura al gioco, contrappunto tra cuore e mente, tra spontaneità di impressioni e rigore di schemi mentali. Così, nel grande flusso dell’energia, la festa del colore e dei segni danza senza fine.

 

Testo critico di presentazione della mostra Progetto Arte/ Lecce, 18-27 , maggio 1996