Renato Centonze (Opere 1984-2002)

di Lucio Galante *

Presentando più di dieci anni fa la mostra collettiva che portava il titolo EP-ART (Cavallino 1991, per il significato di questa denominazione rinvio al relativo catalogo) e alla quale partecipava Renato Centonze, mi parve opportuno far precedere al discorso critico sugli artisti alcune considerazioni generali, soprattutto per spiegare su quali presupposti metodologici si poteva tentare di darne un giudizio e valutarne la qualità, dal momento che, operando tutti in una realtà “periferica”, questa loro localizzazione poteva condizionarne pregiudizialmente una più giusta considerazione storica. Per essere al riguardo più chiaro, non è inopportuno richiamare almeno un passo di quel testo. <<Le moltiplicate possibilità –scrivevo infatti- che ogni artista oggi ha di informarsi su quanto avviene nel mondo significano, di fatto, altrettante possibilità di aprirsi al confronto con le problematiche artistiche internazionali, in questo senso la residenza anagrafica non costituisce un limite, che va comunque verificato nel concreto delle situazioni. Ciò significa che per valutare la singola esperienza occorre certamente tenere conto del quadro complessivo della ricerca artistica contemporanea non solo nei termini di breve e medio periodo, ma dell’intero arco storico quale oggi viene fissato storiograficamente cioè a partire dalle avanguardie storiche, ma questo non può tradursi immediatamente in criterio di valutazione e può solo servire a capire come la singola esperienza si inserisca nel contesto contemporaneo. Risulta ormai acquisito alla storia che, dopo la rottura linguistico-espressiva operata dalle avanguardie, tutte le ricerche successive si sono sviluppate nella loro eredità e comunque in più o meno diretto rapporto con le stesse. Ne deriva che ogni valutazione che tenda a porre l’accento sugli elementi considerati fortemente innovativi potrebbe risultare parziale. Non è un caso che ci sia stato un ripensamento sull’effettivo valore delle opzioni proiettate sulla ricerca della novità a tutti i costi e si sia recuperato il criterio della qualità, per quanto rischioso sia il, non sempre definibile, termine di qualità. Un termine, tuttavia, che risulta meno rischioso di altri assai più vaghi, ove lo si colleghi all’aspetto fattuale e operativo dell’oggetto, anche quando questo può essere frutto della strumentazione tecnologicamente più avanzata (vedi ad esempio la video-arte). Ciò apre la possibilità di legittimare, ove ce ne fosse ancora bisogno, non solo il “pluralismo” artistico in senso ideologico, ma anche ogni operazione o forma d’arte che comporti una specificità fattuale>>. La perifericità non aveva impedito, dunque, a quegli artisti, e perciò anche a Renato Centonze, di respirare il clima culturale internazionale, di avere rapporti con il mondo artistico contemporaneo, anzi in quella circostanza (intendo la mostra EP-ART) essi s’erano fatti portatori anche di istanze ideoculturali che dichiaravano una presa di posizione proprio rispetto al contesto del tempo, rivendicando in particolare, e consapevolmente, il diritto ad un rinnovato impegno creativo.

Nel breve profilo che allora tracciai di Centonze, mi parve opportuno segnalare il cambiamento verificatosi nella sua pittura nel corso dei primissimi anni ottanta, che ritenni giusto considerare come segno di maturazione, non tanto perché, come allora dicevo, lui era approdato <<alla libertà del linguaggio astratto>>, come se ciò significasse una svolta in senso più moderno, quanto perché registravo il mutato atteggiamento nel modo di rapportarsi e confrontarsi con il passato recente e con il contesto presente, atteggiamento che gli aveva consentito di raggiungere la piena autonomia dei mezzi espressivi senza dover rinunciare al rapporto con la realtà, anzi facendo acquistare ad essa una maggiore ricchezza e valenza poetica. Le possibilità che allora gli si offrirono erano o di orientarsi necessariamente sul versante di tutte le opzioni neo-avanguardiste e post-avanguardiste, allineandosi così semplicemente ad una parte, sia pure significativa, delle tendenze allora attuali o seguire coerentemente le proprie propensioni interiori e le proprie convinzioni artistiche e culturali. La scelta nuova dell’astrazione, va osservato, avveniva in tempi affatto insospettabili, e se è vero che, come vuole una interpretazione, il vento del post-moderno stava già soffiando, altrettanto vero è che l’operazione di Renato Centonze non fu di quelle che tendevano a sancire la fine dell’epoca delle vecchie e nuove avanguardie, semmai di quelle che da queste seppero ancora trarre linfa vitale. La maturata consapevolezza di una riconquistata libertà fu coerentemente quella di riaffermare il valore della pittura, non indulgendo a semplicistiche rivisitazioni o citazionismi di sorta, semmai riscoprendone tutte le potenzialità, dal valore in sé della attualità a quel tanto di coinvolgimento sentimentale ed emotivo ch’esso comporta, non escluso il piacere stesso del fare. Vista dall’angolazione dello sperimentalismo ad oltranza, la scelta di allora potrebbe anche apparire stranamente intonata al clima crescente del post-moderno, ma, come è stato giustamente già osservato, l’arte del ventesimo secolo, e, quindi, anche la ricerca di Renato Centonze,, nel suo cammino certo non lineare, non ha mai smesso di intrattenere il suo rapporto col mondo.

Pertanto, riconoscerne il valore non significa misurarne esclusivamente il grado di innovazione creativa, ma intenderne l’autenticità del messaggio, dare credito alla capacità di significazione, in altre parole cogliere il suo modo specifico di rapportarsi col mondo. E allora si vedrà che Centonze ha contribuito allo stesso modo di tanti altri artisti, sperimentalisti e non, avanguardisti e neoavanguardisti, a riaffermare la funzione e lo statuto dell’arte, non sentenziandone la morte. Resta, semmai, l’imperativo critico del cercare di capire, perché il quadro dell’arte contemporanea in definitiva appare ancora e per lo più confuso, il sistema dell’arte ha subito indubbi cambiamenti, non si sa con certezza chi stabilisce il valore di questa o quella esperienza, se il pubblico col suo indice di gradimento, misurato dal numero di presenze nei musei o nelle gallerie d’arte, piccole e grandi o meglio ancora se organizzate come multinazionali, o se ancora il critico che fa tendenza. È, allora, ancora possibile stabilire le condizioni di un giudizio? Certamente si, se la prima è quella di tornare a considerare l’opera, con qualsiasi mezzo realizzata, nella sua natura ricca e complessa, frutto di un processo che implica un quadro di riferimento culturale e non solo visivo, e la seconda è quella di continuare ad averne incontri ravvicinati, in modo da arricchire il nostro approccio percettivo. Rispetto al ’91, anno di Ep-Art, le opere di questa mostra abbracciano un periodo abbastanza lungo del suo percorso, che va dall’ ’84 circa ad oggi, e consentono di verificare meglio ciò che apparve chiaro anche allora. Intanto che il cambiamento linguistico si è rivelato pienamente definitivo, in secondo luogo che tale cambiamento, ancorché contare più di tutto in arte, si è sostanziato di nuovi contenuti, dando alla sua pittura una sua specificità, o meglio individualità, forte anche di una consapevolezza morale e culturale. Oggi si può leggere il suo percorso come una sorta di percorso tematico, quasi che il processo creativo abbia seguito tempi regolati e scanditi da specifici contenuti. Infatti, già al primo approccio, appare subito evidente che i temi, a partire dai Cieli musicali, non sono nati da suggestioni estemporanee, da sollecitazioni occasionali, ma sono frutto di una meditata appropriazione; a svelarcelo sono innanzitutto proprio i procedimenti tecnici e la scelta dei mezzi espressivi. Si dispiega, infatti, sotto i nostri occhi la paziente e salda tessitura cromatica, quella sorta di tassellato regolare e accuratamente calibrato e graduato nei toni e nel registro, due termini musicali, di forte valenza stilistica, che è inevitabile usare in questo caso, visto che è poi questo il senso di queste visioni di cieli, che il pittore s’è provato a realizzare. Naturalmente non mancano i riferimenti tecnici –dal post-impressionismo in poi la scomposizione-ricomposizione del colore ha fatto più volte capolino-, ma come non vedere che la tessitura cromatica si è come liberata di ogni rimando iconico per farsi veicolo diretto di nuova significazione? Qualcuno potrebbe anche pensare, riguardo al tema, alla lezione di Kandinskij, questi, tuttavia aveva dichiarato di voler <<vivere lo spirituale nelle cose materiali e astratte>>, Centonze, invece, che conosce bene l’artista, nei suoi Cieli musicali ritorna alla natura, che, a saperla guardare, egli sembra dirci, sa trasmettere sottili, suggestive e colorate vibrazioni sonore. Il fascino misterioso del cielo può moltiplicarsi allora in una, due e cento immagini, se solo volessimo sentire le infinite variazioni e modulazioni del suo invisibile, luminoso e sonoro ordito cromatico, allontanandoci per un momento dalle diuturne incombenze materiali.

Interrogato su come nasce il secondo tema dei Talismani, l’artista mi ha risposto che proprio agli inizi degli anni ottanta nel percorrere le strade pugliesi egli ha cominciato a sentire forte il bisogno di riprendere in modo più diretto il contatto con la natura, di cui stava scoprendo la pànica bellezza. C’è un cambiamento non insignificante nei Talismani, rispetto ai Cieli musicali, anche se il tema di fondo resta la natura. Basta osservare come sono fatti i suoi talismani. Un piccolo riquadro di tela dipinta, con bordi non rifiniti, è applicata su un’altra tela, anch’essa di modeste dimensioni, dipinta di nero, che sembra farle da supporto. La funzione del supporto, però, non è ad evidenza semplicemente tale, la sua colorazione in nero uniforme serve a fare risaltare il colore della tela sovrapposta, sulla quale sono poi variamente disposti segni di altro colore. Sono segni, quasi forme primordiali, che ora si muovono liberamente nello spazio, come in Talismano-nuvola, ora si addensano tanto da creare una fitta trama amalgamandosi ad un’altra sostanza come in Talismano-cielo(notturno), o ancora tendono a diradarsi secondo un leggero moto verticale come in Talismano-cielo(diurno), o quasi fluttuano morbidamente, sciamando come in Talismano-mare, o infine si depositano secondo andamenti unidirezionale, come in Talismano-erba. Si può dire allora che Centonze abbia voluto recuperare per allusione specifici rimandi al mondo naturale o affidare ancora al segno astratto e al colore una funzione simbolica? Forse occorre puntualizzare meglio la natura di questi talismani. Il punto sta, a mio avviso, nella soluzione stilistica, negli strumenti espressivi e nei materiali. L’idea del talismano rinvia, si sa, al potere magico dell’oggetto, ma il potere magico in questo caso sta o starebbe negli elementi naturali, che sono, però, soltanto dichiarati nei titoli; le immagini che li rendono visibili sono affidate al linguaggio astratto: il colore campito, le linee variamente combinate e articolate, le forme variamente modulate ecc. V’è, infine, un altro elemento che acquista particolare risalto, il contrasto con il supporto, grazie a questo il riquadro di tela sembra assumere le sembianze di un concreto frammento di tessuto prezioso, la cui decorazione in forza del colore raffinato, si fa suggestiva e misteriosa, rendendo quel frammento il vero talismano.

Contemporaneo, e quasi intercambiabile e coerente col tema dei talismani, è quello dei Totem, anche perché a ben guardare i soggetti non mutano, muta, però, la loro elaborazione oggettuale. È sempre la pittura a dare per così dire veste semantica all’oggetto. Ma se prima la natura, nei suoi elementi, cielo, mare, nuvola, erba tendeva a farsi oggetto magico, ora sembra trasformarsi in simulacro metonimico, che rimanda semanticamente al rapporto uomo-natura. L’idea del totem ha imposto inevitabilmente all’artista l’assetto verticale della composizione, per un più immediato riferimento alla forma più comune dell’oggetto totem. Ma la sostanza dell’immagine è ancora tutta affidata alla costruzione cromatica. I riquadri verticali giocano, infatti, sulla variazione del segno e del colore, solo apparentemente per via mimetica –nel Totem-erba il verde è lo spontaneo rimando al motivo naturale- semmai, considerata la libertà combinatoria degli accordi e dei segni, l’immagine diventa una sorta di distillato cromatico a forte valenza simbolica. Nel Totem-cielo è fin troppo scoperto il valore semantico dell’azzurro, così come lo è nel Totem-mare, ma cielo e mare non vogliono essere solo realtà-simbolo della natura, attraversati come sono da presenze dinamiche, segni di vita intriganti, in qualche modo interroganti, ma anche trame cromatiche che esaltano per via di semplice accordo la qualità dell’azzurro campito. Se si dovessero indicare le coordinate culturali di tali risoluzioni espressive, si dovrebbe pensare alla tendenza, fattasi sentire negli anni ottanta, verso il recupero del coinvolgimento sensibile, della manualità e della esaltazione delle virtù del colore. Qualcuno, di fronte al Totem-giorno e al Totem-notte, potrebbe ravvisarvi anche un inevitabile debito verso le poetiche del segno di matrice informale, ma il fin troppo scontato rimando non da’ ragione della diversa qualità del mezzo espressivo e del procedimento tecnico. Nulla di istintivo nell’affollarsi dei segni nello spazio dei quattro riquadri del Totem-giorno, secondo un ritmo discendente, e scandito, come se l’intensificarsi del numero dei segni regolasse l’occupazione dello spazio fino al punto massimo. Si potrebbe anche pensare per la loro forma e per la loro vitalità allo sciamare di esseri viventi. Tutto misterioso è invece l’intricato reticolo che risalta netto nel fondo nero del Totem-notte, quasi angosciante labirinto senza vie di uscita. È questa forte allusione al mistero della vita e della natura che sembra restituire a questi oggetti quella singolare funzione sacrale che, come nei simulacri delle civiltà primitive, serve a stabilire un profondo rapporto di protezione con l’uomo. In questo senso la pittura di Centonze sembra nascere da un rinnovato sentimento pànico, nella convinzione che la natura fa sentire ancora la sua misteriosa forza vitale, e con la quale, soprattutto egli cerca una riconciliazione.

Parte da questi cicli tematici la ricerca di tutti gli anni novanta che lo vedono impegnato ad approfondirli ulteriormente e con modalità del tutto nuove. I suoi attrezzi si ampliano e si aprono a nuove tecniche e a nuovi materiali, senza particolari sconvolgimenti, senza perdere di vista i risultati raggiunti, con in più una tensione nuova verso l’ascolto della natura (uso non impropriamente il termine ascolto).

Certamente tra le opere realizzate in questo arco di tempo, hanno particolare significato le pitto-sculture sonore. Con esse è come se l’artista dicesse che l’arte può metterci in sintonia con la natura, farci sentire il pulsare della vita attraverso i suoi suoni e i suoi colori. È, in fondo, una richiesta di coinvolgimento anche emotivo. Si dirà che questo non è nuovo, che è un’antica aspirazione, che nel corso della storia l’artista ha periodicamente provato a tradurre nella sua opera, l’idea cioè di una partecipazione e di un coinvolgimento diretto dello spettatore, cui non si è sottratta neppure l’arte contemporanea: chi non sa, infatti, delle aperture alle sinestesie anche dell’arte contemporanea? Ad esempio i Mobiles di Calder sono stati definiti <<strutture sonore>> proprio perché implicavano nel loro funzionamento il suono, ed altri esempi si potrebbero fare. Ma nella ricerca di Centonze il tema del suono si incrocia con un’altra esigenza, che si è manifestata anch’essa nel corso del novecento, il coinvolgimento diretto del pubblico, rimasto, tuttavia, almeno nelle forme sperimentate, a livello di semplice fruizione od esteriore osservazione, mentre in lui il coinvolgimento va oltre. La partecipazione al processo creativo è ora inteso nel senso non solo di intervento nel processo stesso, ma anche nel senso di effettivo contatto con l’opera, di una vera e propria simbiosi, che si realizza solo attraverso l’uso dell’oggetto. Sì, proprio l’uso, è questa l’idea nuova, e si intenda il valore del termine nuova, su cui ha lavorato negli anni novanta. Egli non ha voluto fare dell’opera uno strumento di provocazione, di messa in discussione dello statuto dell’arte, ha voluto conservare all’opera tutta la sua densità, non sconvolgerne la sua natura oggettuale che ne consente anche l’effettiva appropriazione, ribadirne l’utilità, o se si vuole anche la funzione sociale. Se, allora, fino ai Talismani l’invito poteva essere ancora a guardare allo “spettacolo” della natura, con gli Scrigni-natura l’invito è ad agire per sentire, per annullare davvero la distanza dall’opera con il contatto diretto e con l’“uso”, per partecipare oltre che con la vista anche con gli altri sensi, il tatto e l’udito. Ma qui va forse precisato che Centonze con le sue pitto-sculture sonore non ha inteso né programmare coinvolgimenti spazio-temporali, né far diventare ogni spettatore artista, ha solo voluto dirci che le sue opere saranno in grado di trasmettere pienamente il loro messaggio se faremo entrare in azione tutti i nostri sensi.

Quando nel 1999 ebbi modo di commentare un suo Scrigno-natura, esposto alla mostra collettiva “Dissimiglianza” (Castello di Copertino) mi parve naturale cogliere nell’idea dello Scrigno proprio il fatto che l’oggetto artistico non era più destinato alla pura contemplazione, ma ci chiamava direttamente in causa. Pensai, infatti, anche per la sua struttura e per le sue piccole dimensioni, ad un moderno tabernacolo, come se ne usavano un tempo per la devozione privata, che sollecita ad una laica pratica religiosa, che chiede il nostro intervento diretto per far risuonare tramite lo strumento incorporato le parti sonore dell’oggetto, perché era l’unico modo per far avvertire anche ai nostri sensi, la vista, il tatto, l’udito, tutta la densità delle sensazioni e delle vibrazioni interiori che l’artista aveva provato a contatto di una natura ora considerata dono prezioso. E la cosa straordinaria è che la ricchezza del rapporto con la natura poteva tradursi nella ricchezza delle soluzioni, come dire che l’artista non avrebbe potuto correre il rischio di ripetersi, insistendo magari per inerzia sullo stesso tema. E quanto sia invece vero che la creatività non è mai condizionata dalle componenti materiali e dalle tecniche, ce lo dicono, quali esempi indiscutibili, opere come A Narciso, Incontro futuro, uno Scrigno-natura del 1997, o come Il blu delle maree del 1999 o come ancora I suoni della notte del 1999-2000, nelle quali la semplice orchestrazione cromatica riesce a toccare tutti i possibili registri del sentimento pànico. Centonze non ha poi corso il rischio di inerzia, perché egli ha continuato a realizzare, con la libertà che gli è consentita dal moderno statuto dell’arte, altri tipi di opere. Non si può negare, tuttavia, che il tema del suono e della musica sia diventato il materiale privilegiato della sua ricerca. L’idea di far dire i suoni ai colori viene da lontano, anche Kandinskij aveva composto le sue immagini attorno ad un colore (Il suono giallo), ma Centonze che conosce bene tali precedenti, come è accaduto per tanti altri artisti, della neoavanguardia o della transavanguardia, che non hanno potuto fare a meno di ricorrere a modelli di riferimento sapendo bene che l’arte non nasce ex-nihilo, ha visto in quelli il necessario, in certo senso legittimante, punto d’appoggio. E se talvolta i riferimenti possono apparire più scoperti, come nel dipinto Il vento…l’estate del 1999, che è una lettura in chiave vangoghiana del tema della natura, ben altra cosa sono i suoi Concerti della notte, nei quali egli può variare da soluzioni puramente pittoriche a soluzioni pittoriche, plastiche e scultoree, con l’uso di materiali diversi, come appunto le pitto-sculture sonore, veri e propri strumenti musicali speciali, talvolta incroci singolari di strumenti a percussione, strumenti a corda, forme organiche e materiali sintetici. E che dire del suo recentissimo ricorso all’installazione, per esperire con tale procedura una più oggettiva resa della pitto-scultura sonora, come a voler attrarre dinamicamente nello spazio libero e circolare della struttura il maggior numero possibile di partecipanti all’evento? Sta proprio in questa libertà anche per Centonze la ricchezza della sua ricerca, che non ha significato rinunciare alla propria coerenza di fondo, ma affermare insieme che è, senza dimenticare i problemi del mondo, la ritrovata felicità del rapporto con la natura può essere davvero una via di salvezza. Perciò, io credo che le parole che esprimono meglio lo spirito vero della sua arte restino ancora quelle dedicategli anni fa da un suo amico: <<Nei suoi quadri, o per me spartiti, si può leggere molto di più che singole altezze sonore ritmiche tradotte in pennellate, è affascinante il poter leggere fino alle più piccole modulazioni timbriche dei colori. Avete mai ascoltato un concerto per vento ed erbetta verde su prato in primavera o una sonata fluida di gocce allegre immerse in un ruscello andante?>> (E. Fina, 1990)

Maggio 2002

* Ordinario di Storia dell’Arte Moderna dell’Università degli Studi di Lecce

Testo critico del catalogo Renato Centonze, 2002

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