Le Auto-geo-grafie di Renato Centonze

IMG_0546di Angela Serafino

Ci sono nelle opere di Renato Centonze delle questioni, disciolte nell’arco del suo fare (almeno dal ’91 – Ep’Arte ad oggi Auto-geo-grafie) che ritornano. In realtà non si muta, ma si approfondisce, annotava Kandinskij, e, forse basterebbe questo per non cercare il progresso o la novità nell’opera, ma l’elaborazione ponderata della pittura che astrae, non per disorientare dalle cose ma per collegare i passi che l’opera compie nell’assunzione di responsabilità nei confronti della realtà. Realtà è una parola in grado di creare molte difficoltà a volerla isolare; in questo caso risuona quale termine di confluenza di altre complessità, quali natura, percezione, dialogo…e non da ultimo, paesaggio.

Una delle questioni, non solo fondamentale ma compiacente con ogni altra, relativa all’opera, è la questione del tempo, che riguarda sia la modalità di procedere ed affrontare il lavoro, che al pari (per una forma di restituzione necessaria) la modalità di fruizione, che coinvolge l’artista come il suo pubblico. Presiede all’opera un tempo lento e lentissimo. È una scelta (è una necessità) intrinseca, individuando Centonze nell’opera la priorità del respiro. Respiro, oltre all’immediato rimando all’essere in vita, rimanda all’attitudine dell’opera ad essere relazione, in essa c’è lo spazio per l’altro; così come ad essere disponibile alla mutazione. Sembrerebbero queste del tempo questioni retoriche o desuete o inutili o inattuali e forse lo sono se l’opera si ferma alla pretesa di comparazione con il nuovo quale termine univoco, o con l’inamovibile concetto di “quadro”, oggetto referenziale privo della dialettiva compositiva e narrativa, processo che invece struttura l’opera d’arte e cancella le autorialità.

Il tempo del lentissimo espande il senso della pittura, coinvolgendo le materie e i suoni. Nelle pittosculture sonore si ripetono un’organizzazione di segni, di gradualità plastiche; ne derivano una serie di confini tra una materia e l’altra che ri-dipongono e ri-nominano la stessa. Non è più la carta nella forma già di frammento, non è più legno, nella forma impalpabile dei trucioli, non è più colore, nella forma della capitura o di tratto.

È lo scorrere del trovarsi nello stesso tempo, rinfrangendosi, pulsano da un margine all’altro, nello scorrere della continuità.

Non accade il deposito delle tracce in un punto preciso, è un collegamento di punti che si scambiano l’eco della presenza. Il colore è l’ossatura, all’interno della quale le auto-geo-grafie- si espandono. Senza la direzione delle variazioni del giallo e del blu che danno corpo al flusso dei segni, potrebbero esser scambiate per pannelli decorativi (!).

IMG_0730rLa questione che segue alla qualità del tempo è infatti la qualità del colore, che non è soltanto materia ma è misura. Nella distanza e tensione tra il giallo e il blu, nella misura dell’uno che respira verso l’altro accadono le auto-geo-grafie. E non ha una valenza localistica la rimemorazione nel titolo del mare, così come il dialogo con il paesaggio è pensato nel mondo, dove le domande di Centonze cominciano a non cercare risposte sui destini della natura, ma elaborano traiettorie per esserne parte. La differenza che ne deriva, tra le due modalità, è quasi didascalica. Tutto ciò che nello scambio tra la pazienza del mio mare e il mare della mia pazienza accade, non è un soliloquio ma passi ai quali possiamo accedere, sui quali si ritorna, accenti con i quali si può ascoltare il trascorrere della narrazione. Il blu fa da cassa di risonanza nei toni differenti, porta nel fondo con un ampio respiro, nella durata necessaria al giallo per urtare come uno squillo il confine verso l’esterno. Non è un disordinato andare, ma un misurato smarrimento intorno agli orli che ripristinano l’attesa per il prossimo immergersi o il prossimo volo.

Compaiono nelle auto-geo-grafie le ombre, esili, quasi invisibili, ma ci sono e spostano ancora lo sguardo.

Le questioni si  completano con il suono. È ancora il tempo del lentissimo che permette di udirlo, come un fruscìo che accompagna il viaggio, toccando con gli occhi e non solo, la realtà intera.

 

Cantieri Teatrali Koreja, Lecce, 2008

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