Dal catalogo il testo di Silvia Cazzato
Spesso il fruitore dell’opera d’arte, oltre ad apprezzare una forma d’arte per ciò che suscita in lui, vuole entrae nello spirito dell’artista e delle sue opere. Può succedere di incontrare un artista che ci colpisce per il suo eclettismo per la sua forte e veemente personalità: ma sarebbe tuttavia errato pensare che l’estro artistico debba necessariamente coincidere con la tendenza di protagonismo. Il faretto della nostra attenzione ha illuminato l’opera di un artista sui generis in questo senso: Renato Centonze.
L’aspetto più affascinante della sua produzione è proprio il fatto che essa sia una sorta di tassello di un puzzle cosmico: una voce che, senza strepiti, senza prevaricare le altre, si unisce al coro universale: e, proprio per questo insito aspetto per gli spazi altrui, l’arte di Centonze acquista peso, potenza, dignità.
Ripercorrere brevemente l’exursus artistico e di vita del nostro artista può aiutarci a comprendere in che modo e misura le esperienze di vita e di pensiero possano aver portato alla produzione attuale, forse più matura e originale, ma comunque rispondente sempre a criteri di coerenza con l’autore. La pittura è sempre esistita per Centonze, e inizialmente gli è servita per esprimere un senso di solitudine profondissimo: volti pietrigni, una natura (che sarà poi sempre presente) massificata, colori azzurri e rossi stemperati dal grigio della pietra a tesimonianza di una sofferenza morale e fisica che accompagnerà Centonze anche negli anni successivi, ma che egli saprà riconvertire in serenità, ottimismo, armonia cosmica.
Gli elementi di questa pittura (ricordiamo che Centonze manifesta da sempre una predilezione per gli olii) si riscontrano anche nella poesia visiva che tutt’ora accompagna o è parte di alcune delle sue opere. Nell’82, poi, il passaggio al segnico: i temi naturali che ora ricorrono con frequenza, sono espressione di un percorso interiore ed esteriore che si avvvale di una forte componente fantastica: il volo fra le nuvole diventa così affrancamento dai vincoli della solitudine che avevano caratterizzato le prime opere. La concezione che prende piede progressivamente nei quadri di Centonze è quella di considerare la superficie pittorica come una finestra, come un ampliamento illimitato nello spazio. E per dare forma e colore ad esso.
Centonze ha cominciato ad ascoltare i suoni della sua anima. La musica che porta all’identificazione del proprio io con il vento, con il volo, con la libertà: ecco l’erba che diventa mare, la distesa di grano che si fonde con il vento sibilante. In quest’ottica viene vista anche la nebbia, con la quale Centonze ha convissuto per molto tempo nella città di Alessandria, oppure il nostro mare pugliese. Anche il tempo si affranca dai vincoli del cronologico per diventare tempo senza tempo, tempo universale. Tutto ciò dà solo un’illusione d’armonia, di quiete: si tratta piuttosto di un’omogeneità di contrasti, di un’arte che in questo gioco di polarità rivela la sua forza, la sua “umanità”.
Nei discreti sentieri d’erba è contenuto il principio secondo il quale noi siamo parte di un universo in cui non ha senso farsi notare: ci nota chi vuole farlo, chi presta spontaneamente attenzione ad una cosa piuttosto che ad un’altra.
Un’arte insomma che è quasi una filosofia di vita.
E veniamo all’opera più recente, per la cui realizzazione Centonze ha impiegato sei mesi (sembreranno molti a chi non considera che la natura stessa ha tutto il tempo che vuole).
L’opera presenta innanzitutto dei colori molto accesi, ormai liberati dall’opaco grigiore delle prime opere; ma non è solo sede di una musicalità “visiva”, per così dire, bensì anche sonora. Tasselli lignei di forma irregolare sono inseriti su corde e chiunque può “suonarli” con una bacchetta che è parte anch’essa dell’insieme. Si legge chiaramente in quest’opera la sintonia dell’autore con Enzu Fina, musicista, o il melange di emozioni nate in lui ascoltando le sonorità di Peter Gabriel, la malimba indiama o le musiche scozzesi. Le corde dell’opera di Centonze ci offrono sonorità materiche, quasi ossessive.
Non si tratta di un suono che si può regolarizzare, ma di un suono naturale che non offre il “piacevole”, la melodia, bensì il “significante”.
Tutto ciò ed altro ancora spiega opere come “Dissonanze Amazzoniche”, che ci riempiono gli occhi dei suoni dell’anima. Ci accorgeremo, così, come dice lo stesso Centonze, di come “luci e suoni colorati diano dimensione allo stupore”.